La rivoluzione culturale
Avviata la propria scuola, Elena Loverdos riprende i contatti con Jia Ruskaja, ora direttrice della Accademia Nazionale di Danza: nel 1964 consegue - tra le prime abilitazioni in Italia - l’idoneità all’esercizio della professione di maestro di danza per l’insegnamento della tecnica accademica di secondo grado (Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana, 17 febbraio 1964, p. 716).
Intanto, sulla spinta dello sviluppo industriale, Pavia affronta un periodo di convulsa crescita demografica e urbanistica: in dieci anni, la popolazione sale da 75000 ai quasi 87000 abitanti, mutando radicalmente il volto della comunità.
Ottenuta finalmente una sede idonea presso il Ridotto del Teatro Fraschini, la scuola si afferma come una realtà cittadina: nel 1964 raggiunge un centinaio di iscrizioni; nel 1965, pur rimanendo formalmente legata al Civico Istituto Musicale, compare ufficialmente la titolatura di Scuola di Danza classica. Altre piccole rivoluzioni accompagnano gli anni del miracolo economico: gli esercizi in classe e le coreografie sul palco del Teatro Fraschini sono ora eseguiti su una base musicale registrata, segnando l’introduzione definitiva della musica per orchestra negli spettacoli di danza di fine anno. La Signora è fortemente consapevole della valenza educativa della danza classica come disciplina del corpo e della mente:
«La mia scuola ha uno scopo puramente educativo, cioè la formazione spirituale e lo sviluppo armonico del fisico nella grazia dei movimenti [...] Penso che la danza abbia una notevole influenza sulla formazione spirituale delle allieve, in quanto sviluppa in loro il senso estetico, la sensibilità e la fantasia; ne sveglia lo spirito di osservazione e la prontezza. Inoltre forma il carattere rafforzando la volontà: i movimenti precisi e aggraziati della danza eseguiti sotto lo stimolo del ritmo e della melodia spronano le bambine pigre e indolenti e frenano e abituano all’autocontrollo quelle più vivaci e disordinate.»
Intervista «La carriera della danzatrice viene scartata perché troppo breve e faticosa», Il giornale di Pavia, 21 giugno 1963.
Il pubblico pavese apprezza particolarmente la grazia e la leggerezza pazientemente coltivate nelle allieve di tutte le età, riconoscendovi una dimensione etica non trascurabile in tempi di grande mutamento culturale:
«Il loro sciamare, la loro compostezza, la grazia del loro porgere richiamano e conducono alla memoria i momenti migliori della storia dell’umanità: i tempi, cioè, nei quali si poteva essere giovani senza essere volgari, si poteva essere scanzonati, scapigliati, financo scatenati, senza cadere nel perverso.»
Il giornale di Pavia, 8 luglio 1964
Al di là della retorica più o meno moralistica di certa stampa, comincia a delinearsi il largo impatto sociale della Scuola di danza per l’intera città: la danza contribuisce così a creare una forte identità nelle generazioni di bambine e ragazze pavesi di tutte le estrazioni sociali. Questa rivoluzione culturale è resa possibile da quote di frequenza modeste (per esplicita volontà della fondatrice), che consentono l’accesso a un’utenza trasversale: nel 1965, quando uno stipendio medio ammonta a circa 86.000 lire,
«iscriversi e frequentare la scuola di danza classica di Pavia, contrariamente a quanto potrebbe sembrare, non costa molto. La quota mensile è infatti di sole quattromila lire. Il prezzo del costume si aggira sulle cinquemila lire.» La provincia Pavese, 4 aprile 1965
L’accesso ai saggi finali è decisamente economico: nel 1964 un posto numerato di platea costa 500 lire, un ingresso in platea 300 lire (saggio finale dell’anno scolastico 1963-1964). Con questa somma intere famiglie possono non solo vedere danzare le proprie figlie, ma anche conoscere il repertorio musicale classico (Bach, Chopin, Mozart, Schubert) e contemporaneo (Kabalevsky, Prokofiev, Shostakovich, Stravinsky). Proseguono i soggetti ricavati dalle fiabe tradizionali, come Il pifferaio magico, Il brutto anatroccolo, Il pesciolino d’argento, o tratti dalla letteratura per l’infanzia, come le Piccole scene dalla storia di Pinocchio.
Esordisce però un nuovo filone tematico letterario, ispirato alle figure e alla mitologia del mondo classico, che si svilupperà nel decennio successivo: nel saggio del 1963 viene rappresentata La favola di Psiche, tratta da un racconto di Francesco Perri, scrittore e giornalista dal solido impegno antifascista, ma soprattutto padre del marito Virgilio Perri. Ancora, nel 1967 viene presentato il pezzo Dopo una lettura di una lirica di Giovanni Pascoli, che alterna momenti danzati su musica di Stravinsky a brani recitati, tratti da X agosto, famosa poesia della raccolta Myricae.
Sotto tutti i punti di vista, dunque, la scuola di Elena Perri Loverdos promuove la diffusione di una cultura artistica fatta di danza, musica, letteratura.
«Uno dei tanti meriti di questa scuola è quello di essere accessibile a tutti. La sua ideatrice non ha voluto una clientela ristretta e aristocratica, ma ha cercato le sue allieve in ogni strato sociale della città. Così facendo ha infranto, per prima, una tradizione; quella cioè che la danza classica doveva essere sola prerogativa delle “figlie di papà”. Adesso la figlia del negoziante danza fianco a fianco con quella del direttore d’azienda; la figlia dell’operaio con quella del professionista. I “cigni” del Fraschini appartengono infatti alle più disparate categorie sociali, ma tutte hanno però in comune la grande passione per il ballo classico.» La Provincia Pavese, 4 aprile 1965
La leggenda degli alcioni (1966)
Nuove sfide si preparano, anche dal punto di vista dell’inclusione sociale. Nell’anno scolastico 1967-1968, su invito della direttrice Madre Rina Anselmi dell’Istituto delle Madri Canossiane di corso Garibaldi, Elena Perri Loverdos tiene un corso di danza ritmica per bambini sordomuti. Il saggio si svolge a maggio, in occasione della Festa della Mamma: è un momento di intensa commozione per le famiglie degli allievi, come evidenzia la stampa locale, con espressioni che oggi giudicheremmo crude:
«Quelle ragazze, e quel maschietto, sono minorati: Sordomuti. [...] La sala non era gremita. Ma molte mamme e molti papà abbiamo visto piangere senza ritegno. Impossibile trattenere le lacrime. Ma impossibile anche non riconoscere [...] il miracolo operato dalla pazienza e dall’abilità degli insegnanti.» Il giornale di Pavia, 14 maggio 1968
Lo spettacolo, di cui purtroppo non conosciamo il programma, è preparato con grande cura:
«Sul palcoscenico illuminato abbiamo visto sfilare piccolini (maschi e femmine) di quattro o cinque anni. Le bambine vestivano abitini rosa di seta da bambola con le mutandine della stessa seta; i maschietti pantaloncini blu con magliette celesti. Costumini usciti dalle mani della sarta dell’Istituto, Liliana. Impegnate nel ballo abbiamo visto anche adolescenti sui quindici anni: belle fanciulle in fiore, vestite in calzamaglia nera con una breve tunichetta blu aviazione. Hanno recitato, tutti. Hanno danzato. La musica li seguiva; non loro seguivano la musica.» Il giornale di Pavia, 14 maggio 1968
Il risultato conseguito appare straordinario, ma non viene colto interamente nelle sue motivazioni:
«La giovane donna, sposata al Prof. Virgilio Perri, venne all’istituto e si trovò presa nel cerchio di queste creature minorate, che cominciarono a chiamarla con accenti gioiosi: Mam-ma! Elena Loverdos, che non ha la gioia di avere figli, si commosse alle lacrime, non fu più capace di abbandonare le bimbe. Con una pazienza estrema, con una dolcezza immensa riuscì a far muovere le ragazze sul ritmo non della musica, ma dei numeri. Contando, infatti, anche le ragazze riescono a danzare con movimenti sincroni.» Il giornale di Pavia, 14 maggio 1968
Ciò che manca alla testimonianza è la comprensione della portata innovatrice di questa breve esperienza didattica, proseguita fino al 1970: alla Signora, formata al rigore della danza accademica e all’euritmica di Jia Ruskaja, ma anche abile pianista, non deve essere sfuggita la sfida di insegnare il ritmo senza il suono e la danza senza la musica, sua naturale sorgente. Dalla testimonianza riportata emergono, invece, altri tratti caratteristici della personalità di Elena Perri Loverdos: l’armonia e la pacatezza, che le hanno permesso di insegnare e di educare tre generazioni di allieve, senza mai alzare la voce.
«Con quella gonna grigia sopra la calzamaglia nera, con i capelli biondi, sembra uscita da un libro dell’ottocento. I suoi modi sono sempre gentili e pacati. Conosce tutte le sue alunne per nome e, al termine delle lezioni, le saluta una ad una informandosi sulle difficoltà incontrate nella realizzazione di un passo, e ha consigli ed incoraggiamenti per tutte.» Il giornale di Pavia, 4 aprile 1965